PROFILI CRITICI

La Cina č Vicina

La Cina č vicina.

Perchè la Cina? Perchè la Cina di oggi è inevitabile. Qualsiasi cosa si faccia. In qualsiasi modo la si faccia. Bisogna farlo pensando alla Cina. E a tutto quello che vi sta intorno. L´Asia. È lì che oggi passa la Storia. E l´arte è Storia.
Gli artisti che vivono a Pechino reggono l´urto di una sfida intellettuale ed emozionale molto forte. Negli ultimi dieci anni la società è passata dal premoderno al postmoderno. Oggi il sogno di Pechino si estende in verticale, un sogno di grandezza che si espande travolgendo ogni ostacolo. Costruzione comporta distruzione: si abbatte l´antica città orizzontale senza valore e si erigono i monumenti del business. Una trasformazione cosė accelerata genera energia, ma è dura con le sue vittime.
Il contrasto tra antica povertà e nuova ricchezza è spietato. E la velocità dello sviluppo non coincide con il tempo psicologico di adeguamento. A volte l´anima resta indietro. Sosta in bilico tra la proiezione nel futuro e il senso di perdita della propria identità. Oriente-Occidente sono categorie già obsolete, dall´ibridazione sta nascendo un´altra entità difficile da definire. L´arte cerca di darle un volto.
È semplicistico pensare che si adegui soltanto alle aspettative occidentali, in realtà propone una continua contaminazione di modelli e iconografie rispecchiando ciò che accade. I nostri mondi non sono più antitetici, di conseguenza si è infranta anche la barriera estetica che ci separava. Forse noi adesso siamo perfino in debito, dato che l´affermazione internazionale dell´arte cinese contemporanea ha disintegrato il tabù del realismo figurativo.
Resta il problema della libertà in un paese dove anche Internet è sottoposto a censura. Forse l´arte sta parzialmente diventando zona franca. Forse si tratta di una vetrina temporanea. Forse - come afferma il critico Hou Honru - si fa strada una nuova cultura basata sul compromesso tra cultura ufficiale ed espressione del dissenso.
Questa è una mostra nata da una serie di incontri a Pechino, da visite ai grandi atelier bianchi alla periferia della città, da un giro nella zona di Dashanzi, dove una grande fabbrica dismessa, la 798, è sede di gallerie cinesi e internazionali, e si propone come il luogo-simbolo dell´arte d´avanguardia.
Gli artisti che presentiamo appartengono alla generazione nata negli anni ´60. La Rivoluzione culturale non è per loro che una memoria d´infanzia. Sono diventati improvvisamente adulti nel 1989 con i tragici fatti di Piazza Tiananmen, a cui alcuni di loro hanno partecipato direttamente. Una generazione che ha lottato per riformare il paese e che è stata disillusa. Una ferita che è difficile rimarginare. Mentre da noi cadeva il muro di Berlino decretando la fine delle ideologie, molti di loro hanno dovuto lasciare la Cina. Nel corso degli anni ´90 si sono allentate le maglie e sono tornati.
Oggi si confrontano con l´enormità della trasformazione e con il disorientamento controllato della società in cui vivono. Nel frattempo l´arte cinese è diventa un fenomeno internazionale al centro dell´interesse del sistema dell´arte occidentale. Come artisti si sono formati nell´epoca dello sperimentalismo, dell´innamoramento delle avanguardie occidentali che, negli anni ´80, hanno rappresentato l´antidoto all´arte di regime, ma ormai hanno metabolizzato tutto, non temono di dichiarare esplicitamente di essere in primo luogo figli del maoismo e di un linguaggio estetico fondato sulla propaganda, di cui riprendono a distanza i modelli iconografici in modo critico. Il loro realismo figurativo ha principalmente questa matrice.
Il retroterra è il "Political Pop", che domina l´arte cinese degli anni ´90, nascendo dalla coincidenza tra l´istanza realista e il linguaggio diretto del Pop americano. Il nesso è ironico e forte: i modi della pubblicità sono analoghi a quelli della propaganda, mentre le icone della Cina rossa sono ormai diventate oggetti d´affezione da manipolare, ma anche un passato da non dimenticare, forse anche un monito contro il nuovo totalitarismo del consumo. Gli artisti invitati, qualunque sia la tecnica con cui si esprimono, privilegiano la figura e non evadono il confronto, anche drammatico, con la società.
Immagini e contenuti ad alta temperatura, che danno un volto alla moltitudine di vittime anonime della trasformazione economica, denunciano la ferita celata dietro i grattacieli lussuosi, oppongono la memoria all´oblio, svelano l´ansia del singolo sotto il macinasassi del generale ottimismo, reclamano uno spazio per l´individuo. "L´arte - dice Zhang Dali - è sempre l´individuazione di un problema".
Ma, il tema fondamentale, che ciascuno di loro affronta in modo diverso, è il contenuto di verità e di menzogna di ogni immagine, l´uso che se ne fa e la possibilità di manipolazione. Sanno molto bene che l´oggetto proposto come un documento di verità è spesso solo una messa in scena teatrale o un oggetto truccato, per ragioni ideologiche nel passato, oggi per la pubblicità delle merci. Dunque le opere, che sembrano limitarsi a riflettere sul passato maoista, in realtà affrontano un problema attuale.
Anche se le figure che ingorgano l´immaginario urbano ed esistenziale oggi sono cambiate e l´icona di Mao resta confinata a Tienanmen, il metodo resta uguale: manipolare gli occhi per manipolare la mente. Il totalitarismo pubblicitario è un problema molto contemporaneo e non solamente cinese, riguarda tutta la nostra società globale e l´ottundimento delle nostre menti.
Non a caso i due artisti, Liu Xin Hua e Wang Lang, pių ossessionati da questa tematica provengono dal mondo della pubblicità. Ne conoscono meccanismi e paradossi. Lavorano insieme raccogliendo e cercando negli archivi le foto della propaganda comunista che ritraevano un popolo lieto ed operoso. Semplicemente accostandole creano delle sequenze che ne mettono a nudo l´aspetto grottesco, o rifanno da capo la messa in scena e la stessa foto con i mezzi tecnici di oggi ma i dettagli di allora, e tanto basta per creare un effetto di straniamento che va dritto al cuore del problema: tanto più vera sembra l´immagine, tanto più è falsa.
Un'analoga operazione d´archivio la propone anche Zhang Dali, quando svela in "A Second History" i trucchi delle foto storiche della Cina di Mao, i ritocchi a cui le immagini sono state sottoposte, i personaggi spariti perchè diventati scomodi, o i fondali cambiati perchè ritenuti poco acconci, infine la retorica di ogni dittatura dove tragico e ridicolo finiscono per coincidere. Fuggito dopo Tiananmen in Italia, a Bologna dove è rimasto sei anni, tornato a Pechino nel 1995 impattando con una società già radicalmente cambiata, Zhang Dali è diventato il graffitista delle macerie urbane e degli edifici in attesa di essere abbattuti, sui quali traccia come un "logo" il suo profilo e la sua firma, Ak47, che suona come la sigla del kalaschnikow : "Voglio essere forte ed efficiente come quest'arma. Ak47 č anche il simbolo della violenza della città contro i suoi abitanti".
Artista engagé ed estremamente versatile, che lavora con molti media, dalla foto e la performance alla pittura e alla scultura, nell´atelier come nello spazio urbano, attualmente Zhang Dali porta avanti un progetto drammatico che ha l´apparente neutralità di un inventario antropologico. Nel suo studio al margine di Pechino, in una zona ancora semiagricola, si ammassano e pendono dal soffitto i calchi dei corpi nudi dei lavoratori migranti, che dalle campagne si spostano verso la metropoli alla ricerca di lavoro e futuro. Sculture dal vero che raccontano una nuova classe degli "ultimi", silenziosa e sradicata, vite calcinate come i loro corpi destinati ai cantieri del progresso, ad occhi chiusi come di chi è smarrito o già morto senza essere vissuto se non come pedina.
Identiche come tanti cloni, incatenate l´una all´altra, a testimoniare omologazione e cecità collettiva, le figure umane dalle mani rosse dello scultore Liu Bo Lin, anche pittore, fotografo, performer. Nato nel 1972 nella provincia di Shandong, - da dove viene Confucio - come tiene a sottolinearmi, è più giovane degli altri, e forse per questo gli sta particolarmente a cuore il tema dell´azzeramento dell´individualità. Se nella pittura cinese antica e tradizionale l´individuo era sempre visto come particella di un insieme, un punto nel paesaggio, nelle straordinarie foto dell'artista l´uomo è completamente mimetizzato con l´ambiente urbano, come se avesse indossato una tuta da camaleonte.
"Cancellati" è il titolo della serie che narra la città e i suoi fantasmi, con una interessante combinazione artigianale di performance, pittura e fotografia. Nessun trucco digitale: Liu Bo Lin mette in campo se stesso, dipinge il proprio corpo e gli abiti in modo da mimetizzarsi con lo sfondo scelto, decide l´inquadratura, lascia partire l´autoscatto. E l´individuo ridotto a muro, saracinesca, o bandiera, denuncia la sua inessenzialità in un presente che non lo contempla. L´utilizzo di più media espressivi, dalla fotografia al video e all´installazione, caratterizza anche il percorso di Zhang Nian, che esordisce con una performance alla Galleria Nazionale di Pechino nel 1989 durante la prima mostra ufficiale dell´avanguardia cinese, chiusa dalla polizia quasi anticipando la repressione di piazza Tiananmen, che segue di lì a poco.
Stava incappucciato a covare delle uova, come il simbolo di qualcosa che stava nascendo. Le stesse uova che, dieci anni dopo nel 1999, durante un´altra performance, ha invitato a lanciare contro una lavagna: "In ogni uovo spaccato un sogno si spezza, una vita svanisce". Si trattava stavolta di sancire la fine dell´epoca dei sogni, dell´idealismo, dell´entusiasmo romantico della sua generazione.
Attualmente Zhang Nian, che vive facendo l´illustratore e il grafico, dipinge in grandi formati i momenti salienti della storia cinese, traendo le immagini dal repertorio propagandistico del realismo socialista che enfatizza con raggiere luminose di colore. Straniamento ironico?
O patriottica rivisitazione della memoria collettiva?
Il kitsch consapevole dell´operazione è ambivalente, ma è un fatto che in tempi di "tabula rasa" l´iconografia maoista è diventata un´importante sorgente di ispirazione per gli artisti. Anche la pittrice Ren Hong, nata in un tempo in cui alle bambine si davano nomi come il suo che significa "popolo rosso", riproduce con colori smaglianti le immagini della propaganda per poi sovrapporvi una fitta griglia di piccoli decori seriali, che a un secondo sguardo si rivelano sagome di animali della tradizione simbolica cinese: uccelli, cigni, galli.
La ripetizione delle sagome uguali è un esercizio paziente e femminile come la tessitura di un arazzo, alla fine l´immagine originaria appare frammentata come in un puzzle divisionista e si intravede appena: è protetta o negata?
Il gioco dei colori abbaglia: forse per Ren Hong la "Memoria del periodo rosso", a cui sono intitolati i dipinti, rappresenta in primo luogo la propria infanzia e giochi di forbici e carta, o il motivo accattivante di una tappezzeria. Oppure il tema è quello dell´oblio nella Cina attuale, dove i simboli di un tempo sembrano acquisire un ruolo sempre più decorativo. Sheng Qi non vuole nè può dimenticare. La sua mano mutilata di un dito racconta di quel giorno a Tiananmen. Aveva ventiquattro anni e vide la speranza mutarsi in massacro. Dopo gli anni di esilio volontario prima a Roma poi a Londra, è tornato nel 1998 a vivere a Pechino. Nella serie di fotografie "Missing" la mano tiene nel suo palmo un´altra foto, diventando la pagina carnale di un album di famiglia, dove le immagini della propria biografia familiare si alternano a quelle di eventi politici e di personaggi dello spettacolo.
Scorrono le immagini della vita, e ancora i carri armati di piazza Tiananmen, come un incubo ricorrente. La verità iscritta nella sua mano tesa è senza scampo. È forse l´unico che riesce davvero a coniugare in un unico gesto la propria soggettività con la critica sociale. Nè la sua scultura o la sua pittura indorano la pillola. Denunciano il sangue, il dominio, la repressione, i "desaparecidi", le condanne a morte di ieri e di oggi. Scrive sui dipinti ideogrammi di denuncia come un beffardo omaggio alla tradizione. Come un tragico cartoon che non si arrende all´inesistenza dei diritti umani.

Eva di Stefano  


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