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Nel secondo scorcio degli anni Novanta – un decennio caratterizzato dalla definitiva frantumazione e contaminazione delle pratiche e dei codici delle arti visive – Andrea Cusumano, allora poco più che ventenne, realizzò un ciclo di dipinti di grande formato in cui la tensione figurativa verso una essenzialità fisica e psichica delle figure – sino a un grumo di pulsioni elementari – si manifestava attraverso una pittura fortemente materica, con impasti densi e larghe colature di colore. A una prima lettura, era legittima la tentazione di richiamare per queste opere quella categoria di un espressionismo trasversale e rivisitato che nel decennio precedente aveva riportato in auge la pittura dopo gli anni Settanta. Soltanto il complesso intervento installativo nella chiesa abbandonata e sconsacrata di Sant’Andrea degli Aromatari chiarì di lì a poco la direzione della ricerca di Cusumano: nello spazio in rovina alla Vucciria popolato di bambole e fantocci maculati di vernice, quei dipinti rivelavano la loro potenzialità performativa punteggiando con la loro presenza figurale gli ambienti in penombra e intessendo con bambole e manichini una conversazione scarna, testimoniale. Sia pure in forma preliminare, quella occasione palermitana chiariva quindi i termini di un percorso già in atto, e ulteriormente ribadito dalla lunga frequentazione con Hermann Nitsch, il grande profeta dell’azionismo viennese – corpi quindi, e sangue, e violenza ritualizzata: un teatro oscillante dalla luce verso l’assenza e l’ombra, dal clamore verso il silenzio, dalla superficie delle cose e dell’esistenza verso il suo segreto anfratto primordiale. Negli anni successivi questa componente scenica è diventata l’epicentro del lavoro di Cusumano, e allo stesso tempo il suo luogo di irradiazione, coinvolgendo nella continuo sconfinamento dei modi linguistici anche collage, fotografia e proiezioni. la pittura tuttavia non è scomparsa: anzi, ha agito come dispositivo germinale delle questioni della figurazione e della spazialità drammatica, sciogliendo nelle performance e nelle installazioni ciò che è specifico e irriducibile: la fisicità che le è propria nell’atto di ricezione del mondo, la sua memoria profonda e orizzontalmente onnivora, l’azzardo dei suoi gesti. Come mai nella sua storia millenaria, la pittura è oggi un medium brancolante.
Nella serie di studi e disegni per Le ali della farfalla, realizzato per il MADRE di Napoli (in collaborazione, per la regia, con Marino Formenti) ispirato alla figura di Carl Tanzel von Cosel e al Don Giovanni di Mozart il collage fotografico si limita agli inserti dei volti prelevati da vecchie immagini in bianco e nero, una imagerie degli inizi del secolo scorso. In alcuni di questi fogli la linea del disegno e gli interventi di colore suggeriscono la foggia settecentesca degli abiti e l’iconografia del ritratto dell’epoca; ma in altri la lettura scenica di quella storia visionaria di seduzione e necrofilia affida alla pittura l’individuazione dei corpi in metamorfosi, l’ibridazione delle figure con organismi vegetali e animali – steli, libellule, tori – in cui il mito si palesa (lo aveva intuito Ted Browning con le metamorfosi atroci Freaks, uno dei capolavori della storia del cinema) non come divagazione o fuga immaginativa ma al contrario, accampato nel cuore del presente, nel suo meccanismo di regressione della psiche, di sprofondamento. Sospesi fluttuanti sul fondo nero senza peso né ancoraggio come chi è condannato all’inconsistenza e alla irrealtà – ed è questo l’incubo – questi personaggi, attraverso la pittura, sono già partecipi dell’azione teatrale. Implicitamente scenica è del resto anche la costruzione figurativa del grande polittico con le figure femminili in posa dinanzi al fondale di una ipotetica cattedrale normanna e, soprattutto di Kindertot, con la stanza squadernata in bilico dove una donna culla una bambola: i temi centrali del teatro di Cusumano, quasi un omaggio al grande modello de La classe morta di Tadeusz Kantor.
Questa ricerca di una rinnovata e ritrovata dinamica rituale così ricorrente nella cultura artistica del Novecento si confronta, nella serie Sic itur ad astra, con gli eventi che stanno modificando alla radice gli assetti secolari del nostro orizzonte, mediterraneo e non solo. Le attuali correnti migratorie riconducono il racconto della contemporaneità a una narrazione di archetipi – il viaggio, l’abbandono, la morte, il diverso – fitta a tal punto da rendere spesso inadeguato qualsiasi approccio, filmico, letterario o teatrale che sia. Cusumano è stato a Lampedusa nel 2011, durante una delle più massicce ondate di sbarchi, realizzando una sorta di reportage fotografico che è divenuto, però, pittura, come ad adottare una più esplicita distanza non rispetto al dramma di cui era testimone, ma nei confronti di un linguaggio, quello fotografico, che si vorrebbe almeno in questi frangenti neutrale e oggettivo. La pittura fa a meno di tale alibi: accampa la mediazione come parte del suo processo, e di fronte alla evidenza delle cose adotta in questa circostanza una modalità diversa dal consueto, come prosciugata nella impalcatura del disegno e quasi monocroma. Più che alla fotografia da cui pure trae origine, questo ciclo sembra apparentarsi agli storyboards e al montaggio cinematografico: primi piani in particolare sui volti dei migranti, altre inquadrature in campo più largo, alcune riprese dall’alto, una soltanto in campo lungo con la barca carica della folla disperata. Dominano questi dipinti le tinte fredde del metallo, i bianchi e i rossi delle vernici degli scafi che addensano intorno alle figure un sentimento di claustrofobia che si salda alla lastra senza nuvole del cielo e a quella plumbea del mare. Come spesso accade con la pittura, la differenza – di codice – si annida nei dettagli, nella maschere e delle cuffie del personale medico, nel giallo fluorescente degli zaini, nei caschi della polizia, in quei particolari cioè che la pittura non si limita a registrare ma ripete e racconta smagliando in questo modo il tempo dell’accadere e lacerando ogni tentazione illusiva. Perché anche la pittura, come tutto ciò in cui siamo immersi, è territorio d’incertezze.
Sergio Troisi