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Thibault Delferière
I due corpi del re
La pratica della rappresentazione del corpo è diretta emanazione della storia dell'uomo, storia che può leggersi in senso universale, soggettivo, e a volte coincidente.
Così il corpo è libro che racconta le imposizioni della religione e della società, emblema di un sistema, specchio e proiezione delle modifiche formali alle quali è assoggettato.
Corpo come nobile materia da plasmare, anticipo silenzioso ma immediatamente visibile del cambiamento in fieri.
Il corpo rappresentato che approda a questo secolo trascina con sé un bagaglio ricchissimo, che negli ultimi decenni si è particolarmente rinvigorito, specie quando ha dovuto confrontarsi con il confine ultimo delle sue possibilità di resistenza, tenendo ben presente l'eterno duello del corpo in vita in contrapposizione alla morte. La corporeità antica, che ha attraversato i secoli dell'uomo, si trasforma adesso in fisicità, riscrivendo, attraverso di essa, riti e messaggi, codici e sistemi, per un'iconografia definita con la carne.
Capita dunque che la rappresentazione del corpo per mezzo della pittura combaci con la pittura che si fa corpo: addensandosi, raggrumandosi, recuperando l'antico patto con la materia, o assoggettandola d'impeto nello sforzo di ricondurla al momento pulsante, tentando di riconnetterla al paradigma della sua affiliazione con la natura.
Thibault Delferière indaga da sempre il corpo e la pittura, a volte sovrapponendoli, come capita quando agisce la sue performance - sempre volte alla manifestazione del limite per attuarne la prova del superamento - altre volte dipingendo.
Corpi, dal segno inciso e dalla consistenza materica, pesanti e presenti, essenziali e spezzettati in segni che, a loro volta, non sono altro che emanazione del corpo.
Così Delferière, artista belga che dopo la laurea in filosofia, i contatti e le collaborazioni con Hermann Nitsch e il suo Teatro dell'Orgia e del Mistero decide di intraprendere la strada della performance, per questa esposizione sceglie di proporre la sua pittura e i suoi disegni, altra testimonianza feroce e reale della sua indagine sul corpo, condotta con rara coerenza e determinazione. Per la pittura, immediati possono essere i riferimenti al Wiener Aktionismus e a grandi maestri come Chaim Soutine o il connazionale James Ensor, autore di dipinti raffiguranti processioni e mascherate grottesche che Thibault Delferière trasmuta nel suo personalissimo universo, alla ricerca incessante di quella soglia che divide e che unisce, nel segno di una perenne inquietudine.
Nella pagina che anticipa il racconto Madame Edwarda- libro scandalo uscito per la sua prima pubblicazione clandestinamente, in poche centinaia di copie e senza il nome del suo autore- George Bataille compie una ricerca del limite che ritrova molti punti di contatto con l'indagine di Delferière. Bataille scrive infatti in queste brevi frasi del prologo-avvertenza: < Si tu as peur de tout, lis ce livre, mais d'abord, écoute-moi: si tu ris, c'est que tu as peur. Un livre, il te semble, est chose inerte. C'est possible. Et pourtant, si, comme il arrive, tu ne sais pas lire? Devrais-tu redouter? Es-tu seul? As-tu froid? Sais-tu jusqu'à quel point l'homme est <toi me^me>? Imbécile? Et nu?> (George Bataille, Madame Edwarda, ed. 10/18, 2010).
Ecco dunque che lo svelamento del limite è la forza dell'indagine, che non può che apparire difficile e estenuante, scomoda, tagliente. Il corpo esibito mostra il suo essere dolente, sempre in bilico, in una modalità di perenne incertezza che è quel limbo in cui lo stesso Delferière fa riferimento. E nel momento in cui, attraverso le parole di Hermann Nietzsche, afferma il suo essere “Umano, troppo umano”, da una parte ammette un dato non superabile, ma al contempo rende omaggio e sfida alla ricerca di un percorso su quel sottile filo da equilibrista che l'artista perpetua come modello della sua ricerca.
I soggetti delle pitture di Delferière sono corpi maschili e femminili che si dibattono per sfuggire alla loro stessa esistenza, e si mostrano fragili e grotteschi assumendo su se stessi il peso della condizione umana, sulle tracce mai perse della lezione espressionista, connotata dalla forza di una iconografia feroce. La pittura è materia che del corpo segue la condizione, e dunque si fa segno convulso e brandello, o si addensa intorno a se stessa per cercare una nuova forza, erigendo un silenzioso muro di difesa. Maschere, corpi nudi, volti, che sembrano emettere un ininterrotto grido di dolore: pittura grondante e acida di una rappresentazione che oltrepassa il dato visibile.
Così come accade nei disegni, riuniti insieme su una grande parete a formare un repertorio di fragilità umane: nel tratto più agile, nervoso, Delferière delinea un universo composto di corpi dove la soglia è un attraversamento carico di solitudine. Le raffigurazioni su carta scelgono il monocromo, la matita o il colore gridato, comunque sempre per giungere all'esibizione della sessualità come continua sottolineatura di una impossibile felicità. Il gesto della rivolta si ritorce contro se stesso, e di nuovo sopravanza un senso di impossibile soluzione, che mostra la carne come limite, e l'aspirazione al superamento di questo limite come ricerca dell'intera esistenza umana.
D'altronde come nota Jacques Le Goff analizzando la storia del corpo e della sua rappresentazione: «I corpi dei fantasmi sono immarcescibili. I corpi dei santi e degli empi si sottraggono dunque alla ferrea legge fisiologica. Una nuova arte, nata dalle rappresentazioni medioevali della morte, elude anch'essa tutte le regole della biologia: l'arte macabra> ( Le Goff, “Il corpo nel Medioevo”, Edizioni Laterza, 2010).
Alcuni storici e semiologi hanno interpretato in maniera onomatopeica la parola “macabro”, rintracciandovi il suono di ossa che battono, oppure ancora di “magri”, di scheletri. E molto spesso di danza macabra si tratta, in una rappresentazione della morte che celebra l'epifania di un fatto che giunge da una dimensione differente dall'esistenza, pur essendo ad essa connaturata.
“I due corpi del re”, teorizzati dallo storico Ernst Kantorowicz, sottolineavano come il corpo del sovrano fosse unico e doppio, ovvero visibile nel presente, e al momento della morte, invisibile ma permanente nel passaggio di una titolarità, quella che fa esclamare “Il re è morto. Viva il re”. Qui invece, il corpo dell'artista è unico, e coincide esso stesso con il linguaggio attraverso cui ne declama il limite: ovvero, la sua prova di esistenza.
Paola Nicita