Conoscere un pittore nel suo spazio di lavoro, circondato dalle sue opere, dalle prime fino alle più recenti, essere avvolti dagli odori della materia con cui sono state create, vedere i quadri di una mostra in preparazione fa provare l’ebbrezza del momento creativo e al contempo introduce alla poetica dell’artista. Nell’incontro con Gaetano Costa questa è stata svelata con discrezione in una conversazione intorno al suo tavolo di lavoro, circondati dai suoi libri e dagli album dei suoi disegni. Sfogliandoli ci si ritrovano citazioni da Schiele, qualcuna da Klimt ed echi all’elegante ductus disegnativo delle illustrazioni satiriche di Beardsley. Che tutti questi oggetti siano in esposizione per i visitatori dell’atelier non è un fatto casuale e se si è mossi dalla curiosità di comprendere l’operare di questo artista se ne coglierà la chiave di lettura a conclusione dell’incontro/visita . Di lui persona colpiscono i toni bassi della voce, le movenze glissanti, quasi cercasse di non turbare l’aria all’intorno, in netta contraddizione dalla sua produzione artistica, specie l’ultima. Parla di sé e dei suoi rapporti con la pittura e con la scultura, che lo interessa in egual misura anche se ad essa ha dedicato fin’ora minor tempo. Traccia il suo profilo attingendo ai ricordi più lontani e vedendosi sempre attento e intento al disegno. Ricorda che attraverso esso riusciva ad esprimersi e a rivelare capacità riconosciutegli e incoraggiate. La folgorazione sulla strada dell’arte è avvenuta ad una mostra dedicata ad Egon Schiele, visitata in età adolescenziale, che gli ha indicato una direzione la cui intrapresa in seguito lo avrebbe investito di molta più responsabilità, ponendolo nella condizione di una dualità di impegno tra gli studi di giurisprudenza e la pittura. Avuto quest’ultima il sopravvento sente l’impegno di dover dare il meglio delle sue capacità creative.
L’interesse per l’espressionismo, che definisce il linguaggio artistico presente in tutti i tempi, lo porta in Austria, a studiare con il maestro Herman Nitsch. Ma il suo vero maestro è e rimane Schiele di cui ammira il deciso tratto disegnativo, che lo affascina tanto quanto l’opera grafica di Leonardo. L’influenza dell’artista austriaco, testimone del tramonto dell’impero Austro-Ungarico e scomparso con esso nel primo ventennio del passato secolo, è evidente in un ciclo di sue opere, alcune esposte sulle pareti dell’atelier. Da esse guarda nel vuoto una umanità in dissolvenza di contorni e di cromia, melanconica e muta. L’artista ha oggettivato, come un secolo prima Schiele, la mestizia dei nostri tempi di crisi.
Pur lavorando a poche centinaia di metri da un antico monumento in cui Palermo si identifica, la Sicilia è lontana o più esattamente estranea. L’artista prosegue nella conversazione e le parole divengono più una riflessione espressa tra sè e sè. L’emigrazione culturale viene considerata una trasferta intellettuale vista come scelta non rara tra artisti e letterati siciliani di tutti i tempi. E’ evidente che ha proiettato i suoi riferimenti culturali altrove e, con preferenza nella Mitteleuropa (come già Antonello da Messina attento ai fiamminghi, Pietro Novelli a Van Dyck, Giacomo Serpotta al fiammingo Duquesnoy, e di ieri, Alfonso Amorelli con i suoi richiami all’espressionismo francese e ancor più tedesco tra i letterati primo tra tutti Luigi Pirandello). Da questa sua conversazione emergono le idee che sono alla base di ogni sua creazione, nata in prima istanza dall’interrogare sè stesso ed al porsi in dialettica con la complessità della mente e dell’animo umano, universo che lo sollecita ad una sfida sul piano della rappresentazione.
Lasciati i personaggi evanescenti del ciclo precedente, il popolo delle opere della sua ultima ricerca è espresso con l’abbondanza magmatica della materia commista al colore, tecnica che suggerisce l’emergere allo scoperto del putridume umano dietro cui sono celate falsi morali. La tristezza dei tempi con la scena occupata da personaggi possenti e vincenti solo in apparenza - Testa allo specchio e Testa con albero - gli svela sotto gli occhi dell’intelligenza il laidume della simulazione, della mistificazione, della menzogna, non più contenibili. Il marcio tracima e si espande. La sua sensibilità di artista ne coglie la presenza e la traduce con il linguaggio in cui i colori spenti esprimono la bruttezza di tale realtà. La materia rappresa che imbratta e non risparmia nulla traduce la metafora della decomposizione e di contro rappresenta il respiro liberatorio dell’artista e di chi, attraverso quanto egli ha saputo esprimere, si è sentito soffocare dall’aria mefitica e ora avverte il soffio vivificatore.
I nudi possono essere letti con il significato di spoliazione da qualsiasi orpello, nella crudezza delle forme. L’amaro di una visione senza infingimenti coglie dinanzi alla Festa, il grande trittico dominato dalle terga del cavallo, quasi da Trionfo della Morte, cavalcato da una morte sconfitta ovvero da un don Chisciotte disilluso, personaggi arresi alla evidenza della loro stessa impotenza. Da qui la giovane anoressica (pronipote della fanciulla tisica di Munch) che cede alle lusinghe di un funereo cavaliere e le anime morte perse in una illusione di luci festive, nelle due ante laterali. Il maiale sanguinolento, trasportato a spalla - il Pasto - evoca tutta la violenza e la volgarità delle umane “abbuffate” che barocchi balconi a petto d’oca contrappuntano. Inquietudini del subconscio suscita l'enorme Volatile scuro e privo di testa: paure ancestrali … incubi notturni di sonni spezzati. Ognuno di noi ha il suo personale San Giorgio per sconfiggere l’intimo drago. A chi appartiene questo San Giorgio in sembianze di longilinea nervosa e sulfurea fanciulla che sfida con i suoi artigli le furie di un gatto nero? Nel gioco delle simulazioni anche il santo guerriero cappadoce - San Giorgio e il Drago - può cambiare iconografia. Momento di malinconico ripensamento o la sostanziale solitudine che ci assedia anche tra la folla? E' l'interrogativo che ci pone La sposa, ricoperta di pizzi, vestita delle sue stesse partecipazioni di nozze e velata da filamenti di colore. Il pittore è stato poeta e ha voluto celare il pudore di una fanciulla di altri tempi. Fra tutti i grigi, i neri e i bianchi sfumati di avorio spicca il Grosso uomo rosso, seduto in un qualchè di fagocitato dalla sua trasbordante mole e posto contro uno sfondo tappezzato di broccato. Sembra il ritratto di un personaggio conosciuto di cui ognuno conserva l’immagine in qualche ricordo. La volgarità del gesto di grattarsi il tallone destro e le medaglie che sembrano essergli appuntate sul petto fanno riaffiorare nella mente flash televisivi di notizie remote. Sarà un dittatore? Il rosso in cui è immerso gli si addice.
Ogni mostra, anche quando sembra esserne priva, ha un filo conduttore, non può non averlo perché è un dialogo che l’artista intende aprire con il suo pubblico. E' la ripugnanza della decomposizione intesa in tutte le sue implicazioni. E’ il lato mostruoso dell’umanità e su questo piano si riincontrano rimandi e rielaborazioni di temi e stilemi di ieri, Goya dei Disastri della Guerra, e di oggi nelle deformità enigmatiche di Bacon.
Di fronte ad essa L’artista si pone con la forza della sua denunzia. Tele segnanti le tappe del suo iter artistico in esposizione nel suo atelier e il suo raccontarsi sono il manifesto della sua arte fatta di sincerità di intenti e ricerca della verità, chiave segreta per comprenderlo e attraverso lui cogliere l’oggettività del messaggio che ha inteso lanciare.
Anna Maria Schmidt