Oltre l'isola

" [... ] più in fondo sulla via Dante, la piazza Lolli con le palme nane, la cicatrice del suo ricovero, il poeta nero tra le aiuole secche. Le strade di tutti si annodavano in quello slargo [... ] i Pecoraino, Aldo e Mario, sono stati ragazzi in via Pasculli. della via Marco Polo sono Bardi e Carpintieri, in via Paolo Amato Spinoccia, Ines Panepinto, e perciò Baragli, Francesco Orlando, Antonio Pasqualino ai due poli della via Dante, io in via Veneziano. Roberto Ciuni veniva trovarci in quelle strade...": così Vittorio Fagone rievoca la sua Palermo del dopoguerra indicando sulla mappa il crocevia di una nuova generazione dì fertilissimi talenti. Anche Andrea Volo è "uno dei Lolli", cresciuto giocando su quella piazza tra la piccola ed elegante stazione ferroviaria e i quieti edifici borghesi. Quelle palme, che forse non ha più rivisto, gli sono rimaste dentro per sempre come un arabesco della memoria, il bagaglio segreto che si è portato appresso nei pellegrinaggi attraverso la Mitteleuropa, così oggi la palma che cresce nel cortile del suo studio romano è una certezza viva attorno a cui scivolano i fantasmi in visita all'atelier.
Nei primi anni Sessanta a Palermo, quando il giovane pittore ventitreenne decide di andar via, si registrava un vivace fiorire di iniziative individuali e di gruppo. Prima di partire, Volo, allievo all'Accademia di Pippo Rizzo e Eustachio Catalano, e nella vita dell'hidalgo Gino Morici, artista stravagante che sapeva coniugare malinconia e ironia, fa una mostra personale alla Galleria Tindari, diretta dal giovane e creativo musicologo Nino Titone, e fonda nei locali di una portineria in via Turati, insieme agli amici artisti Maurilio Catalano e Raffaello Piraino, Arte al Borgo, una galleria che acquisterà nel tempo un ruolo significativo nella vita culturale cittadina e che, diretta da Catalano, esiste ancora oggi. Queste prime esperienze indicano già i due poli divergenti della sua formazione giovanile: il dibattito sull'Informale portato avanti dalla Tindari e il gusto per il realismo critico dal disegno affilato a tinte accese e sottili che guida le prime scelte di Arte al Borgo con mostre di Maccari, Grosz, Shahn.
Un dualismo che rimane il sostrato di fondo su cui si innesta l'esperienza tedesca: con una borsa del DAAD. Volo completa i suoi studi all'Accademia di Monaco, e rispecchia la propria malinconia, come già De Chirico, nel simbolismo di Bócklin. subisce il fascino della pittura forte e corsiva di Lovis Corinth, si appropria del colore espressionista. In quel momento nell'arte tedesca si delinea una via che incrina il dominio allora esclusivo della pittura non figurativa: due giovani artisti venuti dall'est, Baselitz e Schónebeck, hanno pubblicato nel 1961 e 1962. i due manifesti Pandemonium, in cui si dichiarano per un superamento dell'informale nel ritorno alla figurazione, ma attraversata dalle allucinazioni di Artaud. Una scelta visionaria che anche Volo compierà individualmente, sebbene non nel segno della crudezza di Artaud o di Beckmann, ma piuttosto assottigliando la pelle della pittura e sfaldando l'immagine in equilibrio precario tra presenza e assenza, così che la figura assume una consistenza fantasmatica e sfuggente.
Dell'espressionismo mantiene il gusto delle dissonanze cromatiche, ma invece di una intensità dogmatica propone un'ambiguità che non deforma e lascia affiorare, sovrappone, condensa, accende, dissolve, svapora emergenze figurali ed ectoplasmi della memoria. Quella che Volo chiama la sua "infatuazione nordica", non è che una delle varianti della melanconia: rimemorare idee e cose nella consapevolezza della loro usura. Pittura che fluisce e continuamente si congeda, come un pensiero ardito che si attenua e svanisce, un ricordo che si impone e subito dilegua. E nel cuore del giovane artista prende dimora lo spleen per la cultura fondativa del primo novecento che ha il suo crocevia tra Vienna, Praga, Berlino. Così, quando torna in Italia, tra il `67 e il `68, stabilendosi a Roma, porta con sé il "tremendo" angelo di Rilke, lo sguardo cerchiato di Lou Salomé, il divano di Freud, il cappello da sparviero di Alma Mahler, la coperta a rombi della bambola di Kokoschka, le lettere di Kafka a Felice. Sono i convitati che prendono possesso del suo atelier, i personaggi di un album di famiglia che il sensitivo Volo evoca e rievoca da foto d'epoca e grafie che attraversano la tela, come risalendo a galla da un archivio sommerso. Il colore non è che "la materia di cui sono fatti i sogni", e negli interstizi tra le parole perdute e i volti sulla soglia della sparizione sembra insinuarsi un'altra e più profonda nostalgia, il cui oggetto vaco o indicibile appartiene solo all'artista.
"Finché la memoria avrà un luogo in questo mondo distratto" dice Amleto, con questo spirito la colta pittura di Volo si oppone alla deriva, ma nella consapevolezza del distacco. E del dubbio. Perché l'atelier è il luogo dell'eterna interrogazione sullo statuto della pittura, sulla sua possibilità oggi di esistere ancora, sull'anacronismo, l'immagine, la sua funzione, la sua obsolescenza. Ecco che Volo dialoga con Frenhofer, il personaggio di Balzac, autore di un quadro misterioso che confina con il nulla e archetipo dell'artista moderno, che vive in una costante tensione, oppresso dall'incertezza sul proprio operare. Di contro entra in scena Courbet, ultimo baluardo della certezza del potere espressivo dell'arte: riproponendo il dettaglio centrale della celebre "allegoria reale" del pittore francese, Volo ci mostra un Courbet intento a dipingere ciò che mai dipinse, e che fu invece "azione reale", e cioè l'abbattimento nel 1871 durante la Comune di Parigi della Colonna Vendóme, che l'artista impose e che fu poi causa della sua rovina. L'opera che è del 1977, in tempi in cui in Italia il tema dell'impegno politico e della sua traduzione in realismo figurativo è tenuto ancora vivo dal ruolo di un artista come Guttuso, mette in crisi la nozione stessa di realismo. Può mai essere "realista" la pittura? Qual è il suo rapporto con le azioni e i comportamenti nella realtà? Dietro la figura corposa di Courbet che crea il quadro mai dipinto, la modella (la musa) è fantasmatica come un'entità in primo luogo mentale, mentre Volo raffigura se stesso al margine e in bianco come un negativo fotografico: guarda fuori dalla finestra come a ritrarsi dal colore dell'esibizione pittorica e da un dibattito che giudica ozioso.
II distacco, il filtro dell'ironia, la citazione colta, il montaggio concettuale resteranno negli anni a caratterizzare la sua pittura, dove il tema dell'atelier diviene sempre più" centrale e il divano di Freud si trasforma in quello dell'odalisca di Matisse: dipingere è indagine interiore ma anche esplorazione del corpo, erotismo e colore, e il "rimosso" dell'arte contemporanea non è che il piacere della mano e dell'occhio. Così il corpo della modella che si accampa sulla poltrona, dialoga con Manet, o attraversa in trasparenza la scena, diviene metafora di una pittura che rimemora, ossessiona, desidera se stessa. Ciò non è privo di insidie: così il paesaggio, di Sicilia o di altrove, canta con gioia il tema del viaggio e del ritorno, ma in medias terras il corpo del pittore giace sconfitto sulla spiaggia, e ogni isola può essere guardata come un dipinto di Bócklin, limite estremo di una memoria ineludibìle.

 

Eva Di Stefano