SAITTA IL SOCIOLOGO

Sono sostanzialmente due gli approcci del fare, nelle arti visive.
Da una parte c'è il desiderio d'interpretare la realtà e il mondo circostante; dall'altra la spinta a restituire, in forma simbolica, le dinamiche e la creatività del proprio mondo interiore.
Quest'ultimo - come ovvio - è coinvolto anche nel primo caso, giacché come vedremo,'filtra' la lettura della realtà, ma nel secondo ha anche il ruolo di soggetto dell'opera.
Non si pensi, però, che questa distinzione riguardi la differenza fra arte astratta (termine ormai vago ed obsoleto, ma pur sempre utile per brevità) e figurativa, perché, non di rado, anche il modo d'interpretare il mondo può volgere verso soluzioni che sfociano in forme astratte, geometriche, stilizzate o addirittura decorative.
Si pensi, per esempio, all'avventura artistica e creativa di un Kupka, oppure al paradigmatico percorso di Piet Mondiran, ed alla sua celeberrima serie dedicata all'albero, e non sarà difficile comprendere e condividere la bontà di questa mia affermazione.
D'altra parte, è del tutto evidente che la vicenda artistica di Mirò non sia così distante, sotto il profilo degli assunti teorici, da quella di Dalì o di Tanguy.
Prova ne è che tutti e tre gli artisti appena ricordati sono rientrati nell'ambito della corrente surrealista che aveva, come specifico obbiettivo, quello d'indagare gli sconfinati spazi del subconscio.
Ne sono uscite immagini figlie della ricerca psicanalitica, da incubo o da sogno come quelle di Dalì, oppure le fluttuanti e coloratissime composizioni legate dal filiforme tratto di Mirò, derivate dall'uso del disegno automatico, nonché i paesaggi nebbiosi di Tanguy che sembrano istantanee scattate da archeologi dell'anima.
Il giovane Massimo Saitta ha scelto di condurre la sua ricerca nel campo che ho menzionato per primo, ovvero quello che si occupa della descrizione della realtà circostante, ma con un piglio ed un intento tutto particolare.
L'interesse di Saitta è, prima di tutto, per l'uomo; ma calato nel suo contesto sociale.
A Saitta poco importa della rappresentazione della figura isolata, monumentale.
Non gli interessano i ritratti e neppure le metafore simboliche.
È attratto, al contrario, dalle situazioni e dagli atteggiamenti che ciascuno di noi assume in certe condizioni, che poi sono quelle della vita di tutti i giorni.
Saitta sociologo del pennello, si potrebbe dire, anche se la strada da percorrere non può fermarsi qui, come del resto si addice alla sua giovane età.
Saitta non è isolato in questo tipo di ricerca che vanta precedenti illustri, a cominciare da Hogart che fustigò la società inglese del XVIII secolo con la celeberrima serie del Matrimonio alla moda.
Sulla medesima lunghezza d'onda in Francia, troviamo Chardin, Daumier e, poi, più avanti, Lautrec che, del secondo, riprende una certa vena caricaturale, talora presente (cum grano salis) anche in Saitta come dimostrano opere quali, per esempio, I giocatori di carte.
Da noi, in Italia, troviamo (tanto per citarne alcuni) Longhi e Ghezzi che, però, è un vero e proprio caricaturista e poi, nel Novecento, Maccari, ma pure Mossino, illustratore dal tratto icastico.
Saitta, in verità, rifugge dalla caricatura vera e propria: le sue fisionomie sono sapienti, sempre in bilico fra realtà e forzatura; accentuate quel tanto che basta per trasformare i personaggi in caratteri e non in caricature.
Pur non sapendo nulla dei protagonisti che animano il tavolo da gioco, infatti, non è difficile individuare, fra i giocatori di carte, a sinistra, l'impiegato parsimonioso, l'uomo attento al centesimo che copre la propria calvizie con il classico 'riportino' (ovvero i capelli laterali allungati sulla pelata): è lui che mescola le carte e si accinge a sfidare il ricco commerciante che, per sentirsi ancora giovane, si è lasciato crescere i capelli sulle spalle.
Sull'altro lato del tavolo, in fondo, assistono alla partita i pensionati col panciotto e con gli occhiali: sono loro gli habitué del circolo, quelli che tengono il conto dei punti e si fanno arbitri della partita.
Ecco, a Saitta interessano questi piccoli universi umani nei quali si misurano i rapporti fra le persone e le vicende vissute da ciascuno.
Solo così emergono i differenti caratteri, svelati da un piccolo gesto, dal modo di portare la cravatta, dalla scelta dei colori del vestito, dal modo di pettinarsi.
È un fine psicologo Massimo Saitta, attento al valore assoluto delle piccole cose, di quei particolari che descrivono intere stagioni sociali, atteggiamenti epocali, piccoli cambiamenti di enorme portata, come ne Gli amanti, un'opera dalla quale emerge uno dei mali del nostro tempo: la solitudine.
Anche qui non mancano precedenti.
Si pensi alle opere di George Segal, ai suoi uomini bianchi che, di recente, un critico famoso ha paragonato ai calchi delle vittime dell'eruzione di Pompei.
Sono fantasmi di gesso o di vetroresina gli uomini di Segal, condannati a vivere come <> direbbe Leibniz: senza comunicare.
Bene gli amanti di Saitta sono un monumento a quella incomunicabilità che, forse, solo il rapporto carnale potrà fessurare.
Certo è che nella scena dipinta da Saitta, i due, stanno uno dinanzi all'altra senza parlare, seduti al tavolo di un motel o di una sala d'attesa.
Forse non vogliono dare nell'occhio, forse aspettano il momento propizio per scambiarsi le loro effusioni d'amore, un bacio, una carezza, un sospiro: le vere ragioni per le quali si sono incontrati.
Di sicuro, se non ci fosse il titolo a metterci sulla buona strada, nulla lascerebbe trapelare la realtà di quella vicenda amorosa e nessuno darebbe peso alle punte di quelle due scarpe che si toccano in primo piano.
Anzi, lui pare piuttosto distaccato, appoggiato com'è alla spalliera della sedia che lo allontana dal margine del tavolo.
Lei, invece, è bene attenta a non incrociare lo sguardo di lui sicché, volgendo gli occhi al pavimento, assume un'aria assorta e distratta.
Tuttavia, quest'opera di Saitta introduce ad un altro dei temi prodiletti dall'artista: quello delle figure intorno ad un tavolo.
Tema importante e insidioso che ha avuto in Rembrandt uno dei più grandi cantori.
Chi non ricorda lo splendido ritratto di gruppo dedicato a I sindaci dei drappieri, oppure Il giuramento dei Batavi che illustra un episodio fra lo storico e il leggendario? Qual è il rischio di una composizione del genere? Collocare le figure intorno ad un tavolo come se fossero in posa, come una teoria di teste più o meno ben rappresentate, come faceva Frans Hals nei suoi ritratti di gruppo commissionati dalle compagnie militari olandesi.
Saitta, invece, guarda a Rembrandt ed alla sua magistrale lezione.
Il tavolo è il protagonista ed il fulcro della scena; è l'oggetto spaziale che unisce (come ne I giocatori di carte) o separa le figure, come in Seduta di Laura.
Qui simboleggia il limite invalicabile fra una generazione ed un'altra, il muro da scalare per il discente che si confronta con il suo professore, il fosso da saltare per passare nel mondo degli adulti e del lavoro.
Tuttavia, il motivo di fondo della poetica di Saitta è l'attenta riflessione sulla solitudine, una condizione che, soprattutto nella società contemporanea, quasi mai coincide con l'essere isolati e lontani dagli altri.
Al contrario, molto spesso, si può essere soli in mezzo alla folla.
È questo contrasto che interessa Saitta, il quale non a caso dedica al tema due grandi tele che rappresentano situazioni quotidiane, ben note agli abitanti delle grandi città: Metropolitana e Tapie roulant.
La prima opera è un monocromo ed è tutta giocata sul colore rosso brillante che, come la luce di un allarme, inonda l'intera scena nella quale i passeggeri seduti sui loro sedili, stanno fermi e zitti uno accanto all'altro.
È come se il vagone della metropolitana fosse all'improvviso passato dinanzi ad un segnale di pericolo: il fotogramma bloccato di un incubo nel quale ciascuno è solo con i propri pensieri, pur stando a pochi centimetri dall'altro passeggero.
Il rosso, colore del movimento e dell'energia, contrasta con questa situazione di stasi e di solitudine, ma nel contempo, sottolinea il disagio dell'alienazione di ciascuno di noi, "solo" in mezzo a tutti.
Riflessioni assai simili scaturiscono dall'osservazione di Tapie roulant, un'altra grande tela dipinta, però, con i bruni delle terre.
È il tapie-roulant dell'aeroporto di Fiumicino che Saitta prende in considerazione, non senza essersi recato sul posto ed aver scattato un abbondante numero di fotografie.
Il punto di vista è frontale e la massa di persone che avanza rimanda agli schemi dei grandi rilievi dell'antica Roma, oppure al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo; ma nell'opera di Saitta non c'è nulla d'eroico.
Tutto è appiattito dal colore marrone che si giustifica sì con l'atmosfera di penombra, ma la realtà percepita è che, ben presto, le persone lasciano il posto alla "gente", ovvero a quella folla anonima nella quale la persona umana si perde e s'isola pur rimanendo fisicamente vicino agli altri.
Qui nessuno pensa, ma tutti corrono dietro ai loro affanni, ai loro affari, alle loro piccole o grandi necessità; ognuno per sé in un muto egoismo che impedisce a chiunque di comunicare.
Tuttavia, un'analisi dell'opera di Saitta non sarebbe completa se non si riferisse anche della tecnica utilizzata e delle ascendenze figurative più dirette che ne condizionano il percorso creativo non privo, però, di una propria originalità.
La materia cromatica utilizzata da Saitta è bella, corposa, profonda.
Si tratta di un colore moderno che, tuttavia, si porta dietro la fisicità delle antiche botteghe artigiane, un colore che rivela un lavoro paziente, attento, nel quale la manualità dell'artista esalta il gusto del fare.
Saitta, infatti, prepara da sé le proprie tele, realizza i telai, mescola il pigmento cromatico con colle adeguate.
Stende, lavora, leviga il colore sul supporto e lo rende vivo, vibrante, comunicativo, complice della narrazione, innalzando la poesia del racconto.
Un racconto che guarda anche alle esperienze americane degli anni Sessanta e Settanta del Novecento: dalla pop art all'iper-realismo.
La sua Porta girevole, per esempio, pur essendo assai diversa - perché animata dalla gente che vi entra e vi esce -, ricorda il 2 Broadway di Richard Estes (1969) che appuntava la propria attenzione sul gioco di riflessi creato dai cristalli e dall'alluminio lucido della struttura della porta.
La porta di Saitta, invece, finisce per essere la metafora dell'inutilità del cambiamento nel crso delle situazioni della vita perché quando si spera di uscire, in realtà, ci si ritrova sempre ad entrare e viceversa, anche se la dominante verde dell'opera non tarda a comunicare un'atmosfera di distensione che, a volte, appartiene davvero ai percorsi dell'esistenza.
Una pittura complessa, dunque, quella di Saitta che sviluppa su proprie linee personali, e con una propria ricerca poetica originale, la lezione espressiva di Andrea Volo, maestro di vita e di pittura.

 

Marco Bussagli