Gai Candido - Mamma Africa

La tentazione della critica è sempre quella di collocare ciò che vede per la prima volta all'interno di un contenitore conosciuto, o meglio di un'etichetta, che spesso risulta essere una comoda stampella di supporto per decifrare tutto quello che appartiene al mondo dell'espressione artistica. I lavori di Gai Candido colpiscono perché sono una sfida aperta alla nostra necessità di catalogare, e quindi anche un po' di ingabbiare. Le opere di Gai Candido sono inafferrabili, magiche, non si collocano, non appartengono.
Queste opere fanno piuttosto riferimento a un mondo che ogni individuo può riconoscere al proprio interno: i materiali diversi e arditamente accostati che le caratterizzano scaturiscono da un'esperienza maturata durante il lungo soggiorno in Africa, mutuata con l'attività artistica che Candido ha da sempre esercitato. Entrare nel vivo di questi lavori è come fare un viaggio all'interno di una realtà soprasensibile: una realtà dove gli incubi di un bambino si mescolano al folklore locale e a quello che potremmo definire un neo pop della periferia estrema del mondo.
Non sono opere tranquillizzanti, anzi. Lontane anni luce da una tendenza, sempre più attuale, che vede gli artisti prendere definitivamente le distanze da un mondo percepito come irrimediabilmente oppressivo e violento e quindi rifugiarsi nella logica della contemplazione, queste opere ci parlano di sogni, di miti, di divinità lontane ma anche archetipiche e pertanto nostre, come pure di abbandono e disgregazione sociale. In questo senso Candido non si tira indietro di fronte all'impegno e alla responsabilità dell'artista di fronte a situazioni di oggettiva gravità e usa le armi sempre affilate del gioco e dell'ironia per cavalcare con leggerezza su temi altrimenti troppo drammatici.
Prima della diffusione delle grandi religioni monoteiste come il cristianesimo e l'islamismo, l'Africa nera possedeva, e in molti casi possiede ancora, un ricco ventaglio di religioni animiste e feticiste fondate sull'idea che la trascendenza possa essere peculiare anche degli oggetti. E' questo mondo che Gai Candido ha vissuto, abitandolo e immergendosi nella sua realtà più difficile, per diversi anni. In Africa Candido ha osservato, vivendole in prima persona, le situazioni più diverse che poi generano le più grandi contraddizioni sopra un fortissimo sostrato religioso. E' su quest'ultimo punto, accompagnato da una riflessione sociale che emerge con forza, che questo ciclo di opere oggi in mostra alla galleria Mediterranea è fondato.
Quello che lascia autenticamente sorpresi è la straordinaria disinvoltura che Candido adopera nel riutilizzare oggetti di uso quotidiano e piccoli giocattoli quasi restituendo ad essi l'autentico, primitivo valore di oggetti di culto. Allora una bambolina che normalmente siamo abituati a vedere sospesa da uno specchietto retrovisore della macchina diventa, opportunamente ricoperta di pigmento dorato, un ornamento prezioso (il re nero), quando non un terrificante feticcio (il trono del giaguaro). E' quindi oltremodo ardito il gioco - quanto mai contemporaneo- che Candido mette in opera nel ribaltare il senso comune di un oggetto come il giocattolo, e restituire ad esso l'originario valore cultuale.
Candido -un artista dalla personalità indubbiamente multiforme- ci pone di fronte immagini curiose, apparentemente giocose, assemblate attraverso l'utilizzo dei materiali più diversi, che a un primo sguardo ricordano le illustrazioni delle fiabe di un continente lontano. Questa operazione di singolare sincretismo tra divinità pagane, cristiane e quelle della religione animista, di cui il culto e l'utilizzo del feticcio è parte integrante, ha già visto all'opera artisti come Chris Ofili, che lavora da tempo sul significato dei simboli delle religioni africane e le forme artistiche contemporanee. Il caso di Gai Candido è però diverso: la sua è un'esperienza vissuta in prima persona e non c'è nostalgia di un orizzonte perduto, quanto piuttosto la liberazione uno spirito di osservazione fuori del comune che riesce a cogliere anche nelle forme espressive non appartenenti alla cultura di appartenenza i punti essenziali e a focalizzare la sua attenzione su di essi, riportandocene l'essenza. Le opere di Candido sembrano infatti autenticamente provenire da una cultura diversa, lontana. Anche gli oggetti-sculture che ancora una volta ricalcano le forme del totem e del feticcio cultuale sono generati da un'attenzione inconsueta per gli oggetti di qualsivoglia provenienza, che poi risultano accomunati, all'interno di singolari commistioni, tra i nuovi oggetti-culto del mondo occidentale, ossia i giocattoli per bambini, diffusi dalle multinazionali in una logica che abbatte ogni confine e ogni specificità locale, e le maschere della religione animista. Anche a queste nuove icone della fiaba e del gioco è interdetto l'accesso agli abitanti di quest'Africa Nera così disastrata: in "Rosa Nero" al ragazzo, protagonista dell'opera, è di fatto impedito il raggiungimento della felicità da un ostacolo insormontabile.
Nello stile queste opere risentono sì di forme appartenenti ai manufatti della cultura africana, ma soprattutto di quelle espressioni figurative che a cavallo dei secoli XIX e XX hanno caratterizzato tanta arte figurativa e plastica delle avanguardie. Nelle opere di Candido c'è un po' di tutto questo: c'è il mistero e lo sguardo incantato di Rousseau il Doganiere, c'è la plasticità di Picasso, c'è Baj e Fautrier, passando per il pop americano e infine per il nouveau réalisme.
Nella medesima temperie si collocano anche le cosiddette "sculture" di Candido, che tendono a riproporre in una chiave riveduta e corretta la struttura del totem. Sembra infatti che l'artista si sia divertito a guardare ogni aspetto della realtà circostante e a coglierne potenzialità inimmaginabili: anche in questo caso oggetti destinati alla discarica sono rientrati, attraverso un percorso di ricontestualizzazione, a far parte di una categoria più alta.
In conclusione, pur ravvisando nell'operazione di Gai Candido modalità appartenenti a movimenti già storicizzati come il dada o la più recente arte povera, non si può fare a meno di notare che molta dell'arte che oggi occupa gli spazi deputati alla sua fruizione, nazionali e internazionali, si sta muovendo verso una direzione simile, coniugando gioco e denuncia sociale, ironia e gravità.

 

Tiziana D'Acchille